sabato 24 maggio 2008

Bullismo

E' mio uso, presentare ciò che scrivo (che oso, forse in maniera sacrilega chiamare poesie), con delle immagini inerenti il tema trattato.
Ma questa volta, voglio omettere di inserire qualsiasi immagine, sia per non inserire immagini di pestaggi fra giovani, sia per non inserire immagini di genitori.
Chi è il vero colpevole di questo odioso fenomeno?
La scuola?
La società?
I genitori?
I ragazzi (o presunti tali per non dire bimbi)?
Sicuramente, chi non vuole ascoltare, ha una sua parte di responsabilità,
sicuramente chi non vuole mettere regole, ha una sua parte di responsabilità,
sicuramente gli adulti che, non vogliono essere adulti hanno una parte di responsabilità.
E loro? Questi temuti BULLI, cosa chiedono?
Forse che gli adulti facciano gli adulti
NIENT'ALTRO.
BULLISMO

Figli,
Persi nelle loro stesse anime,
bambini non più bambini,
adolescenti non ancora adolescenti,
devastati da silenziosi rumori
chiedono aiuto
con assordanti silenzi.

Genitori,
adulti mai stati adulti,
ciechi
che non vedono
quell’immane tormento,
sordi
che non odono quei rumorosi
silenzi,
quell’accorato
bisogno di guida, di regole
che a questi
con rumorosi silenzi
reclamano.

Imprigionati
dentro un telefonino,
inconsapevoli schiavi di una feroce
tecnologia,
vittime e carnefici
delle loro stesse vite.

La società,
colpevole
di aver creato i bulli con la sua
indifferenza,
colpevole
di non saper proteggere di questi
le vittime,
colpevole
di non aver fatto diventare adulti
gli adulti.

Gaetano GULISANO

venerdì 23 maggio 2008

Bruciante amore

“BRUCIANTE AMORE”

Al pari della falena che
imperterrita
vola verso la luce
incurante di bruciarsi,
con ardente gioia
senza paura
della cocente fiamma,
ostinato procedo
verso il tuo
caldo amore.

Al pari del fiume che
inarrestabile volge
verso il mare,
travolgendo ogni ostacolo
corro dentro i tuoi
fluidi e lucenti occhi.

Al pari del prode cavaliere che
in sella del suo
fiero destriero
squarcia il cuore
dell’orrendo drago,
con la stessa impetuosità,
amore mio
faccio breccia
nel tuo cuore,
per poter tranquillo
riposare nella tua
ospitale anima.

Al pari dell’araba fenice che
dalle sue ceneri
sempre risorgerà,
adesso amore mio
io brucio nella fiamma
del tuo amore
per eternamente
risorgere in te.

(Alla mia dolce moglie.)


Gaetano GULISANO

Perché?



Quante volte, ci siamo chiesti il perché delle cose e, quante volte ancora ce lo chiederemo, forse senza trovare mai una risposta, ma io penso che l'importante è non smettere mai di chiederselo.
Chi se non Dio, potrebbe risolvere questo quesito, quel Dio che è dentro di noi e che, giornalmente ci fa compiere atti tanto stupefacenti, da farci credere che non siamo stati noi a compierli.
Atti come Amare, avere il coraggio di Lottare, andare sempre Avanti in una parola,
VIVERE.
Perché?”

Gran Dio, Perché
dobbiamo vivere
affannandoci
a costruire,
a creare,
se dopo siamo consapevoli
che arriverà la morte
a distruggere tutto?

Gran Dio, perché
esiste il bello
che tanti sensi di
grazia e di armonia ci desta,
se dopo il brutto
ci infonde orripilanti percezioni
offendendo ciò che bello era?

Gran Dio, perché
il giovane che tanto rigoglio manda,
deve dalla vecchiaia essere vilipeso,
privato del suo vigore,
della sua vitalità?

Gran Dio, perché
la pace che tanta vita rimanda,
deve essere sempre offuscata
dall’inutile ed ignobile guerra,
che strazia e dilania
quell’armonia di vita?

Oh umano,
proprio perché,
l’uomo non smetta mai
di domandarsi il perché!

Gaetano GULISANO

giovedì 22 maggio 2008

Olimpiadi Cinesi







Fra non molto, si terranno queste tanto discusse Olimpiadi in Cina.
C'è, chi dice di boicottarle, ed in un primo momento anch'io ero fra quelli, ma poi, una persona che non ho mai visto, ma che credo di conoscere tramite quello che scrive, mi ha fatto cambiare idea, perché giustamente sarebbe solo servito a spegnere i riflettori su quello che sta accadendo.
Ma mi piacerebbe vedere, gli atleti di tutte le nazioni partecipanti, che in ogni disciplina, questi gareggiassero con un effige del Tibet.
“OLIMPIADI CINESI”

Oh Zeus che al giovane Pelope
ridasti vite nuove,
le mortali genti
ogni quattro anni ti celebrano.
“OLIMPICO GIOVE”.

Con quanta tenacia
giovani fanciulli
e tenere fanciulle
si allenano con coscienza
donando allo sport
la loro adolescenza.

Sudando per potere gareggiare
sotto quei cinque cerchi ,
che simboleggiano le umane genti
che popolano
i cinque continenti,
nel nome
di quell’amichevole rivalità
che unisce i popoli e che con
con corrette competizioni
regalano intense emozioni.

Indottrinati all’onore,
nel’antica arte della scherma;
al rispetto dell’avversario,
nella nobile arte della lotta;
all’eleganza,
nei graziati movimenti
dell’equitazione;
alla pace
nel nome della competizione.

Oggi, questo onore,
questo rispetto,
questa eleganza,
questi simboli di
pace e fratellanza,
offuscate saranno
da chi in Tibet
ha vilmente calpestato
e continua a calpestare
ciò che queste parole
stanno a significare.


Gaetano GULISANO

Sud



“SUD”


Gente rinvigorita dal cocente sole
nelle valli
del mio amato sud.

Gente offesa da quello stesso sole
nelle valli
del mio odiato sud.

Le rigogliose coste
che di Odisseo furono il conforto,
malamente oltraggiate
da quei figli
del mio amaro sud.

Contadini cacciati dalle loro terre
nel falso nome
del moderno sud.

Giovani uccisi nelle fabbriche
per sfuggire allo spettro
dell’antico sud.

Giudici e onesti suoi figli,
ignobilmente uccisi
dal mio feroce sud.

La paura è l’unico male
del mio infamato sud,
l’indignazione è l’unica cura
per il mio ammalato sud.

(Dedicata a tutti quegli uomini
e quelle donne che con grandi gesta
o con piccoli gesti quotidiani,
giornalmente combattono
la più spietata e sanguinaria delle mafie
L’INDIFFERENZA.)


Gaetano GULISANO

La mostra d'arte


“LA MOSTRA D’ARTE”
Il vociare della gente rimbombava come gli echi degli strumenti che si accordano in teatro prima di un concerto, in quell’enorme sala, dai soffitti altissimi, pienamente affrescati che purtroppo non riuscivo a distinguerne il tema, angeli, demoni, in quel groviglio di corpi erano quasi un sol figura, certamente doveva essere una raffigurazione sacra. L’aria era intrisa dell’odore di vecchio, di chiuso, il classico odore dei vecchi quadri chiusi in antiche cornici dorate, quelle opere d’arte prigioniere in bui musei, schiave di sofisticati allarmi, oggi erano gli attori di una antica tragedia greca, con le loro stesse maschere, interpretavano loro stessi, i loro creatori.
Uomini di mezza età distinti, con l’aria interessata e con il fare annoiato, accompagnati da elegantissime e truccatissime signore, la quale età era indecifrabile a causa dei canotti rossi che erano le loro labbra e dal decolté rigonfiato dal silicone. Ostentavano gioielli, come se fossero queste le vere opere d’arte esposte e da ammirare, senza tanto celare il totale disinteresse per i veri oggetti della mostra d’arte. - Filippo - una di queste donne con voce al quanto sostenuta, tanto da farsi sentire anche dalle altre persone che le stavano vicino, ma senza trascendere nell’ineducazione, rivolgendosi a un uomo vestito come il proprio accompagnatore, che doveva essere il marito, che aveva le sembianze di un grosso pinguino appena scampato all’attacco dell’orso polare, - Hai sentito che a questa mostra serviranno del comunissimo salmone, anziché il caviale come gli altri anni? - prima che l’uomo potesse prendere la parola, la sua dama che doveva essere la moglie, anch’essa una buffa e grassa caricatura, ornata di gioielli come un cavallo bardato a festa per trainare i carretti Siciliani, fulminea intervenne - Hai proprio ragione mia cara Adele - questo doveva essere il nome della dama, - Ma guardati intorno, oggi giorno alle mostre fanno entrare chiunque – guardandosi intorno – Il salmone è anche troppo per gente come quella. – Volgendo lo sguardo con gli occhi pesantemente truccati, che la facevano apparire come un vecchio pugile suonato che le aveva appena prese di santa ragione, - Non posso darti torto cara Gilda - questo doveva essere il nome di quest’altra goffa creatura; ed entrambi volgevano nella stessa direzione quel miscuglio di vari cosmetici che erano i loro inespressivi visi.
Volgendomi nella direzione indicata dalle due donne, notavo dei ragazzi e delle ragazze mal vestiti, che con spregio commentavano quei secoli di arte, - Ma guarda bene – ­­­diceva una ragazza che indossava una camicia da uomo in Jeans di due o tre taglie più abbondanti delle sue reali misure, un paio di pantaloni mimetici da uomo, anche questi notevolmente più ampi della sua reale taglia, e con una strana pettinatura intrecciata sul capo che emanava uno sgradevole odore, al ché pensai che dovessero essere diversi giorni che quel crine, era estraneo sia all’acqua sia a qualsiasi tipo di detergente per l’igiene personale. Rivolgendosi ai membri della sua compagnia, anche questi vestiti allo stesso modo, come dei militari pronti per una battaglia, e subito pensai che sia il primo gruppo di persone così buffamente ben vestite, che questi altri completamente diversi, nella loro diversità dovevano essere uguali. – Questa, hanno l’insensatezza di chiamarla arte, sono dei ritratti inespressivi e null’altro! - nonostante fossi sconvolto da simili affermazioni, rimasi ad ascoltare perché ero curioso di sentire cosa avrebbero replicato gli altri ragazzi, anche se non mi sarei stupito della risposta che ne seguì -E’ proprio vero – istantaneamente rispose uno dei ragazzi di quel gruppo irrorando il suo commento di volgarità irripetibili - Pensa li chiamano artisti?Come può essere frutto di un artista, una, anche se reale riproduzione di corpi, pittori senza alcuna inventiva, alcuna personalità, altro non erano che antichi fotografi.-
A quelle affermazioni, mi allontanai perché non volevo sentire altro di quanto udito. Mentre i miei occhi facevano beare la mia anima tra un “Tiziano” un “Canaletto” un “Tintoretto” e altri immani pittori di quelle fiorenti epoche, finalmente, a far beare la mia anima non furono solo i miei occhi, ma anche il mio udito, sentendo in lontananza un tale sulla cinquantina, vestito decentemente con degli abiti non vistosi né per eleganza né per trascuratezza, una giacca di velluto beige con delle toppe marroni, sopra una camicia bianca ben inamidata e chiusa da un papillon rosa e un pantalone ben stirato dello stesso tessuto della giacca, che aveva tutta l’aria di essere un professore universitario intento a spiegare a dei ragazzi totalmente diversi sia per l’abbigliamento che per l’olezzo, e in cuor mio speravo anche per intelletto, di quelli che avevo visto e purtroppo udito prima. Furtivamente mi avvicinai per meglio udire quelle spiegazioni.
Avvicinatomi a una distanza tale che mi consentiva di bene udire le parole, finalmente, fissando quei dipinti e ascoltando con attenzione le parole, mi sembrava di vivere in quei misteriosi anni, vedere quelle polverose botteghe, sentire l’acre odore di quei colori abilmente impastati da quei maestri. Pur fissando intensamente quei dipinti pian piano nella mia mente si scolorivano fino a diventare una bianca tela, e vedevo quegli immani maestri che con sapiente amorevolezza, intingevano i pennelli nelle misture sapientemente prima preparate e brandendoli con la stessa fierezza del paladino che impugna la scimitarra e colpisce il Saraceno, si avventava su quelle candide tele, con l’unica differenza che il paladino avrebbe distrutto o la sua o la vita del Saraceno, mentre il maestro avrebbe dato vita ad una immane gioia che per secoli, avrebbe fatto beare generazioni e generazioni di persone, (ad eccezione degli stolti in cui mi ero abbattuto prima), ed a ogni pennellata, come per incanto si materializzavano quelle figure irrorate da misteriosa luce che da epoche erano impresse in quelle tele.
Mentre ero assopito in questi miei beati pensieri, venni destato da quell’incanto da un lieve pianto, contemporaneamente, mi accorsi che anche colui che doveva essere il professore, interruppe la sua spiegazione, in quanto anch’egli, era stato scosso da quel pianto. Guardando con attenzione, notai un uomo tarchiato e basso con le spalle curve per gli affanni di usuranti lavori sin dalla giovane età, (cosa che sarebbe stata impensabile per i giovani olezzanti e gli uomini pinguino incontrati poco prima), parzialmente calvo, di circa settant’anni, con la pelle visibilmente bruciata dal sole, gli occhi scavati, un viso scarno rigato da lacrime che descrivevano delle ellissi, per circoscrivere le rughe che ne segnavano il volto; avvolto da una camicia che destava subito agli occhi, i numerosi lavaggi che questa aveva dovuto subire e con il colletto leggermente ingiallito, abbottonato sino all’ultimo bottone e priva di cravatta; una giacca scura visibilmente consumata e i pantaloni uguali alla giacca sia per il colore che per l’usura. Nelle mani teneva un basco nero che martoriava con le grosse dita callose, tipiche di chi con l’uso di quelle mani si guadagna da vivere.
Senza esitare, mi avvicinai per chiedergli se avesse bisogno di aiuto e con la coda dell’occhio, notai che il presunto professore del quale non mi ero più curato, istantaneamente ed in silenzio mi seguiva.
- Scusatemi? – incominciai, ma non ebbi alcuna risposta, - Scusatemi - ripetei, ma l’uomo sembrava come in uno stato di trance, come se in quella sala non ci fossero altri che quella raffigurazione del Bacino san Marco di Venezia del 700 e lui. - Scusatemi -, ripetei, questa volta scuotendolo per un braccio con tutta la delicatezza di cui ero capace, finalmente destando la sua attenzione. - Comandate signore-. L’uomo cominciò ancor prima che io potessi proferire parola - Vi è successo qualche cosa di grave? Avete bisogno di Aiuto? - immediatamente replicai e mentre interrogavo l’uomo, il professore mi stava alle spalle visibilmente incuriosito da quello strano accadimento.
L’uomo, a quella mia domanda e guardandosi intorno, come se per la prima volta si rendesse conto in quale luogo si trovasse, asciugandosi gli occhi con un gesto repentino dell’avambraccio e arrossendo visibilmente, replicò:
- perdonate signori, - riferendosi anche al professore che ormai mi era quasi al fianco - non è successo nulla di grave , sto bene, ma mentre guardavo queste scene dipinte, la naturalezza di questi movimenti raffigurati… Sapete, io sono un contadino e coltivo un campo di radicchio nelle campagne di Treviso - stavolta mentre arrossiva, abbassava lo sguardo con un senso di vergogna, e subito dopo continuò dicendo, - Io, non ho mai studiato, sia per colpa mia sia perché era più importante che dessi una mano a mio padre nei campi. Ma amo guardare spesso quei documentari, sapete quelli che danno a volte alla tv?- . -Si- replicammo in coro io e il professore. - Non avevo mai visto dal vero quei dipinti che mostravano in tv – continuò l’uomo – È adesso, nel guardarli, provo una sensazione tanto starna che non so spiegare. Sapete, quando ascoltavo le spiegazioni che davano in tv di quei dipinti simili a questi, non riuscivo a capirne il significato, ma ora, mi sento come rapito dalla loro bellezza e mi sembra di sentire le grida dei commercianti in piazza san Marco, l’odore del sudore dei rematori su quelle barche – diceva mostrando un quadro del canaletto raffigurante il bacino san Marco, e continuando a parlare con la voce spezzata dalla commozione e il volto rigato dalle lacrime – La perfezione di quei corpi muscolosi e la luce che emana quel cristo, quello sfondo nero pieno di luminosità,- indicando un altro quadro di Tiziano, - mi ricorda la semplicità dei miei campi, la bellezza delle montagne che leniscono la fatica e il dolore delle vesciche provocate da lunghe ore di zappa. E non ho potuto e non posso fare a meno di commuovermi.- Incantato da quelle parole che nella mia anima risuonavano come meravigliosi versi di grandi poeti, non riuscii a replicare, ma pronto il professore che ormai mi stava qualche passo avanti, seguito dai suoi allievi, che pendevano dalla sue labbra, come gli apostoli del Cristo raffigurati nell’ultima cena di Leonardo da Vinci, con la voce spezzata dalla commozione, volgendosi soprattutto ai suoi allievi, replicò: - Mio caro amico - così chiamò quell’uomo che continua a sgorgare lacrime dagli occhi. - Oggi, sia io che miei allievi, vi siamo grati perché ci avete dato una delle più intense e importanti lezioni che uno studioso dell’arte possa ricevere. Come distinguere se un’opera d’arte è tale oppure solo qualcos’altro.- Sia io che l’uomo che nel frattempo aveva smesso di piangere, ascoltavamo esterrefatti quell’accorato discorso del professore. - E oggi, grazie a voi caro amico - continuava rivolgendosi al contadino – Affermo con certezza “che se una qualsiasi opera d’arte è apprezzata con commosso trasporto, da chi all’arte non è avvezzo, quella e solo quella è una vera opera d’arte!”.- Dopo aver pronunciato con estrema solennità quelle parole, si volse verso il contadino, gli strinse la mano, lo ringraziò e con la schiera dei suoi “discepoli” si allontanò, mentre il contadino ancora incredulo per quelle parole che avrebbe continuato fiero a raccontare nei campi mentre coltivava il radicchio e la sera all’osteria, ancora più emozionato di quanto lo avevo incontrato continuava a fissare quei quadri, lasciando che le lacrime continuassero a rigargli il volto incurante di quanto lo circondasse.
Io stavo per salutarlo, ma nel vederlo tanto assopito, nell’osservare quei dipinti, non volli distoglierlo da quell’incanto.
Mi allontanai felice di aver visitato una affascinante mostra d’arte e di aver incontrato il miglior critico d’arte che avessi mai potuto incontrare.

Gaetano GULISANO

Ombre





“OMBRE”

Ombre prendono forma
nella mia vessata mente,
mentre calmo vago
fra la muta gente.

Il tempestoso mare
or guardo ansimare,
finché il gelido vento
lo fa forte sbuffare,
portando fra le onde
della mia mente stanca,
una nave arcana fra
la schiuma bianca

Vedo apprestarsi lesti
nelle loro antiche vesti
quei sommi condottieri
che combatteron fieri.

Serio uno di questi
senza tanto indugiare,
come un amato padre
incominciò a parlare.

Quanto sangue versato
su questo suolo amato,
lottando guerre immani
per rendervi Italiani.

Quell’ eroico senso
or non oltraggiate,
con le piccole lotte
che stolti combattete.

Destandomi lesto
da quell’arcano incanto,
mi trovai il viso in un
fulmineo pianto.

Turbato dal rimprovero
che quell’eroe mi mosse,
pensai quale il senso
di quel sogno fosse.

Non ebbi dubbio alcuno
che quello strano sogno,
altro non era,
che un mio grande bisogno,
di credere ancora
a dei valori saldi per onorare
i Mille e il prode Garibaldi.


Gaetano GULISANO

mercoledì 21 maggio 2008

Occhi rubati





Queste due foto, non sono solo parte di un mondo incantato, qual è il pianeta della montagna.
Sì, perché la montagna è un pianeta a sé e, i suoi abitanti sono degli umani "Alieni".
Forti come le loro rocce, candidi come la neve, freschi come i boschi nelle mattine d'estate.
La montagna, non è un luogo è una filosofia di vita, la filosofia più sana che si possa immaginare.
Io che scrivo, scrivo a cagion di causa, perché anch'io amo questo favoloso pianeta.
Ogni qualvolta riesco ad abbandonare la città e immergermi in quel mondo, non riesco a frenare le lacrime per la commozione.
Una ragazza di questo meraviglioso pianeta, il 16 aprile del 2008 è stata violentemente rapita da un altro mondo, un mondo cupo, un mondo scuro.
Un mondo, tanto lontano e tanto diverso dal suo pianeta.
Anche se le sue mani, non stringeranno più le racchette da sci, i suoi piedi, non calzeranno più pesanti scarponi e sci dove districarsi fra le porte dello slalom, ove questa splendida ragazza era maestra, anche se dalla sue labbra, non usciranno urli liberatori di vittoria, i suoi occhi, vedranno ancora, perché nella sua generosità di "aliena montana", aveva deciso di donarli.
Adesso, dovremmo chiederci il perché una ragazza come lei abbia deciso (sempre che sia stata lei a decidere, cosa alla quale io non credo), di prendere quella maledetta pastiglia?
Si, forse dovremmo, ma oltre a non cambiare le cose, sicuramente non avremmo nessuna risposta.
L'unica cosa che non è in dubbio è, che lei è morta, per le mani colpevoli di ignobili venditori di morte e che la nostra legislazione, non riesce a colpire duramente come dovrebbe questi assassini.
A Kristel Marcarini giovane promessa dello sci Italiano, morta a 19 anni dopo una serata in discoteca a causa di una pastiglia di ecstasy. E, che aveva espresso la volontà di donare i propri occhi.
“Occhi rubati”

Occhi,
avvinti scrutavano
le candide cime delle montagne,
colmi di gioia e di commozione
per l’immane e dolce incanto.

Fra i pali stretti dello slalom,
occhi attenti e gioiosi
si lasciavano
scivolare sulla candida neve,
linda come la tua
netta l’anima.

Occhi,
curiosi e persi
in quell’infame mondo,
quel mondo così lontano
dalle tue bianche vette,
quel nero mondo che
contrastava
col candore di quella
soffice neve.

Occhi,
rubati da un
terribile demone,
accecati da una
tetra pastiglia,
deturpati di quel
profondo chiarore
che erano
i tuoi vispi occhi.

Occhi,
che in un altro corpo,
in un'altra vita,
in un altro sogno,
per tuo volere
ancora vedranno
quelle bianche vette.



Gaetano GULISANO

Cento Stanze







“CENTO STANZE”


Cento stanze di
paura,
cento stanze di coraggio,
cento stanze di vergogna.

Cento grida di soccorso,
cento fiati di speranza,
cento
dubbi di innocenza.

Cento scuse per quei bimbi
morti dentro un
buio pozzo,
per l’umana negligenza
o per la folle
violenza.

Cento accuse,
cento condanne e
cento
assoluzioni.

Due ragazzi, due speranze
Persi nelle

cento stanze.

( A Ciccio e Tore.)

Gaetano GULISANO

martedì 20 maggio 2008

Venditori di Morte





Avrei voluto usare immagini più forti, più crude; e vi assicuro che ci sarebbe stata solo l'imbarazzo della scelta.
Da, persone ridotte a larve di se stesse, con le due foto di raffronto, con il classico prima e dopo, a tutte le siringhe usate che infestano i parchi del mondo, a quei poveri ragazzi vittime e schiavi di una mente che non lo è più, per volere di atroci schiavisti e "venditori di morte", intenti a darsi quell'atroce e lenta morte, agli slogan dei vari schieramenti politici o tutte le battute di cattivo gusto a danno di questi schiavi.
Ma non lo farò, perché non voglio urtare la sensibilità di nessuno con immagini tropo crude.
Ma lasciatemi passare queste poche immagini e i miei versi per denunciare questi orrendi schiavisti, questi atroci venditori di morte spesso in giacca e cravatta o ben vestiti, persone insospettabili che dicono di volere il bene comune, non meno colpevoli degli spacciatori veri è propri.
LO SBALLO NON E' BELLO!!!

“VENDITORI DI MORTE”

Lungo le strade
venditori di morte
decidono della
umana sorte,
alienando sogni
di chiara polvere
dicendo che questa
poi faccia risorgere.

Nelle discoteche
persone bieche
inondan le menti
delle giovani genti,
spacciando l’oblio
per divertimento
infondendogli un immane
e perpetuo tormento.

Dentro a lussuosi
palazzi dorati
venditori di morte
sempre ben vestiti,
con venti spinelli
ed alcuni grammi
si lavan le mani
di immensi drammi,
decidendo quanto
di quella morte
a quei ragazzi
posa bastare
per poter vivere
oppure morire.


Destati ora
dolce speranza,
fa che il senno
in questi s’avanza,
che mai più siano
dei compratori
e scaccino quei
lividi venditori,
perché tramutino
lo sballo in bello,
e torni alla vita
il dolce ballo.


Gaetano GULISANO

domenica 18 maggio 2008

Tramonto


“TRAMONTO”

Mentre il sole lento
nel mare s’immerge,
come se dolcemente
v’affondasse,
l’aspra brezza salmastra
mi inonda il palato,
mi pettina i capelli,
mi punge le nari.

Fintanto che il mare è
reso purpureo
da quel vermiglio sole,
la mente mi s’inebria
in un cocente abbraccio.

Il cielo ancora ramato
dal ricordo di quella
calda sfera,
come un attento ospite
accoglie l’infreddolita luna,
alleviando per pochi
interminabili istanti
il suo candido pallore.

Io felice
per esser parte
di questo sommo incanto,
paziente guardo
la lucente e pallida
Artemide.

Consapevole
che il fiero Apollo,
domani imbriglierà
i suoi destrieri,
prenderà in mano le
lunghe redini,
soggiogandoli ancora
al suo volere.

Al pari
di quell’infuocata sfera,
anch’io domani risorgerò
a levante.



Gaetano GULISANO


Angeli senza le ali

Mentre la vita scorre nella maniera più tranquilla che si possa immaginare, lavoro, casa, amici...
Un bel giorno, in un'interminabile frazione di secondo, ti trovi disteso sull''asfalto in una pozza di sangue e poco lontano, giace un tuo amico e collega di lavoro.
Ti dicono che forse, in qualche modo guarirai, ma ti dicono che al tuo amico devono amputargli la gamba e ti dicono anche di dargli coraggio, anche se sai che non riusciresti mai a trovare le parole giuste.
Sai anche, che l'unica cosa giusta da fare è resistere, ed esorti anche il tuo amico a farlo, perché ci sono delle persone che danno la loro vita alla scienza, altre che danno la loro vita per aiutare le persone che come me ed il mio amico si sono visti defraudati dei loro sogni.
Ma quando ormai, non ci credi più, nel tuo destino si profila l'Istituo Ortopedico Rizzoli di Bologna, il Prof. Sandro Giannini con il suo staff e gli infermieri della 6° divisione.
Allora capisci che sulla terra ci sono "Gli Angeli senza le Ali" che riescono a volare ad alta quota pur restando con i piedi ben saldi a terra.

GRAZIE!!!





“ANGELI SENZA LE ALI”


Senz’ali muti angeli vagano
per le corsie degli ospedali.

portan speranza la dove è vano
sognar guarir da atroci mali.

senza curarsi della fatica
conforto danno a chi più non spera.

come la nave che il porto trova
in voi si scorge la calma sera.

Non siete arcani ma siete reali
angeli dolci senza le ali.

Siete i dottori e gli infermieri
che calmi vagan per gli ospedali


Gaetano GULISANO

sabato 17 maggio 2008

Neve


La mia più grande tristezza, è che un giorno tutto questo splendore, possa essere ammirato solo nelle belle fotografie o nei racconti degli anziani.
Ogni anno, con il riscaldamento globale, perdiamo una grossa parte dei nostri ghiacciai.
Un giorno, sentivo dei ragazzi che in proposito dicevano "meglio il caldo al freddo".
Mi domando, come si può essere tanto stolti, come si fa a non apprezzare le bellezze della natura.
Prediligendo il caldo al freddo o viceversa?
Sia luno che l'altro, fanno parte di quel disegno divino o di quell'equilibrio della natura (per chi non crede in dio).
L'uno senza l'altro, non potrebbe esistere, perché si annullerebbero a vicenda inevitabilmente.
Come si può essere incuranti del suicidio che stiamo perpetrando, pronunciando "meglio il caldo al freddo".
Io continuo ad essere fiducioso che gli uomini si destino del torpore anti ecologista che che come un terribile morbo sta appestando le menti degli umani e si corra al più presto ai ripari.
“NEVE”

soffice neve che dal ciel diffondi
e imbianchi le valli e i sommi monti,

Rendendole come signori canuti
che sulle valli regnano muti.

Quanta beltà nel core mi mandi
osservando questi muti giganti.

Imbiancati dal tuo delicato manto
e tanta la gioia che si muta in pianto.

Non pianto di duolo ma commozione
nel mirar questa bella creazione.

Oh uomini in pace
se il senno vi luce

cessare non fate
queste nevicate.


Gaetano GULISANO

Carabiniere



"CARABINIERE”

Tu,
che in pochi istanti
prendi risolutive decisioni,
le stesse che un magistrato
prende in giorni e giorni
di consultazioni.

Tu,
che insonne vegli
le nostre notti
sotto la pioggia battente
o al gelido alito
del giorno nascente.

Tu,
che con il tuo sangue
hai lavato il lerciume,
che ha insozzato
le strade della nostra
bella Italia
e che ancora l’insozza

Tu,
ingiuriato negli stadi,
deriso nei teatri,
vilmente dilaniato a “Nassiyria”,
oltraggiato nei cortei,
da quell’infamante
dieci, cento, mille
e cosi sia.

Tu,
che usi tacendo
obbedire
e tacendo
morire.

Ti dico grazie
CARABINIERE.

(A tutti i Carabinieri D’Italia)


Gaetano GULISANO

Spumeggiante Onda


“SPUMEGGIANTE ONDA”

Spumeggiante onda,
liquida fonte di gai pensieri
e di dolci ricordi,
perpetuo atto
di arcane storie ,
andirivieni
di intensi sentimenti.

Spumeggiante onda,
trasportami nei tuoi ricordi,
annegami nei tuoi pensieri,
inabissami nei tuoi segreti,
fammi naufragare
in lontani lidi.

Spumeggiante onda,
destami lo spirto che
di Odisseo fu ,
il gusto della libertà,
il senso della scoperta.

Spumeggiante onda,
infondimi il sale
del tuo travolgente mare,
l’impetuosa forza
delle tue tempeste
la calma dei
tuoi sereni tramonti.
Spumeggiante onda,
infrangiti
con tutto il tuo
veemente vigore
sulla chiglia
della mia fantasia.

Spumeggiante onda,
tu, oh sorella
del possente Eolo,
chiamalo a spirare
sulle vele
dei miei sogni
e reclamalo
per gonfiarle
con l’ impeto
di erranti miti.

Spumeggiante onda,
fammi ancora
viaggiare
nei segreti mondi
del tuo immenso mare.

Gaetano GULISANO

Forno di Canale

Forno di Canale, era il nome originario di Canale d'Agordo, un paese montano nella vallata Agordina, in provincia di Belluno.
Paese, che diede i Natali a Papa Albino Luciani.
Io personalmente, sono molto affezionato a questo paese, perché è stato il primo posto(incantevole), che la mia attuale moglie, mi ha fatto visitare, innamorandomi perdutamente delle montagne, perché di lei lo ero già perdutamente.


FORNO DI CANALE


Un dì dalle venete acque mi mossi,
e fino ai quei monti svelto mi volsi,
per il voler di una donna sì bella
che mi convinse con dolce favella.

Alla visione di tanto splendore
colto io fui da immenso fervore,
nel contemplare quei monti sì belli
che al cielo guardano tranquilli.

Quella si dolce e bella fanciulla
col suo bel fare e con voce tranquilla,
ancor mi narrava di quei luoghi ameni
e dei natali di papa Luciani,
di quel paese sì tanto gioviale
che fu il Forno di Canale.

Oltre io udivo quei dolci racconti,
dei dì trascorsi e di allegre genti,
e più rapito io mi sapevo
e in quei bei monti
con l’alma vagavo

Guardando assopito quei muti giganti,
dalle bianche vette padroneggianti,
pensai al paradiso narrato dai santi
e del mio pensiero fu allor convinzione,
che assomigliasse a quella visione.

Io pensai lesto, ai miei cari estinti
che in pace ora erano sopra quei monti,
di triste gioia il mio core si stette
nel saperli gai fra quelle vette.


Per valli e sentieri io presi il cammino,
scrutando quei boschi sì da vicino,
sentendomi parte di quella natura
che l’uomo maltratta con somma sciagura.

Fui dunque convinto che dal quel momento,
mai più avrei lasciato quel luogo incantato,
con quella fanciulla sì amata e sì bella
che fu l’a cagione del mio dolce fato,
l’avrei difeso dall’umano
male lucente Forno di Canale….



Gaetano GULISANO

Monte la civetta

Un giorno mentre passeggiavo per le vie di Canale d'Agordo ( che è l'attuale nome di Forno di Canale), mi trovai davanti in tutta la sua imponente maestosità il monte "La Civetta.
Guardavo quasi ipnotizzato, quella massa all'apparenza inerte, inanimata, di possente roccia.
Il sole del tardo pomeriggio, gli donava una lucentezza che sembrava propria, come se fosse il sole stesso ad illuminarsi al cospetto del monte e non viceversa.
Non riuscivo a distogliere lo sguardo da quell'incanto e, le persone che mi passavano accanto, d'un tratto, sembravano mute ed inanimate, sembravano delle statue in movimento.
Mi trovai ad ascoltare con l'anima, quel monte che mi raccontava di come gli uomini, non si curano di ascoltare la voce della natura, perché troppo impegnati nelle loro folli guerre.


MONTE LA CIVETTA


Ti vedo roccia nuda e possente,
ma muto mi parli monte imponente,
t’appellan come il rapace uccello
e usi le nubi come cappello.

Della civetta hai la parvenza
e della roccia la sua potenza,
quando il sole ti viene a baciare
dai luce al Forno di Canale.

Ti dicon spoglio di spirto vitale,
e che, agli umani non puoi parlare,
ma più ti rimango a contemplare
e oltre sento il tuo narrare.

Di gente dura senza sgomento,
che per la valle senza paura
dall’alba al tramonto duro lavora.
Narrami oh monte di quella gente
che ignara d’esser di razza uguale
folle si volle sterminare.

Sento il tuo pianto maestoso monte,
li nomi figli quei prodi alpini
sia Austriaci che Italiani,
che la follia di un attentato
uomini in belve a presto cangiato.

Ancor tu gemi nel tuo narrare
e ti domandi con gran stupore,
perché quei figli dell’Alpi belle
udir non seppero le favelle,
che con muta voce quei monti urlavano
e alla pace le genti invocavano.

Oh caro monte dall’ali abbondanti,
ancor mi narri di guerre furenti,
del cimitero dei figli tuoi
che fu il fratello tuo Lagazzuoi.

Ancor io odo il tuo singhiozzare,
mentre ascolto il tuo serio narrare,
di quei figli sepolti in altra vallata
sulla sorella tua Marmolada.

Che gravi accenti io colgo col core,
mentre mi narri di sì tanto orrore,
che ancor non stanchi di guerre immani,
or sei tu tomba di quei partigiani,
che per liberarci dall’oppressore,
caddero fieri con onore.

Dunque comprendo perché mi parli
con così grave supremo accento,
perché io narri al mare e al vento
e alle genti di tutto il mondo
che non ve roccia possente e muta
se l’alma in sorda non si tramuta.


Gaetano GULISANO

Trinacria



















Come non farsi affascinare dalla mia terra (e dico mia con tutto l'orgoglio e il dolore di cui un essere umano può essere capace).
L'orgoglio per essere nato nello stesso luogo di filosi e poeti, l'orgoglio di essere nato in quel luogo, dove la montagna sposa il mare e con questo si confonde, il luogo dove il sole ha la sua dimora e, quando il divino Febo, imbriglia i suoi cavalli e stimolandoli li fa rompere in un frenetico galoppo, sparge quel manto dorato alle spighe di grano che con il complice aiuto di Eolo, le fa dolcemente ondeggiare; l'orgoglio per essere nato in quella terra di gente che arsa dal sole, da questo è rinvigorita.
Il dolore, nel vederla maltrattata da quei figli ingrati e fratricidi; il dolore, perché spesso questa splendida terra, viene associata a quanto di più malvagio l'uomo può concepire;
il dolore, nel vedere nella mia gente assopita la forza, il coraggio; affievolito l'ardente fuoco che arde come nelle viscere del vulcano.
Ma ancora rincuorato, per l'esistenza di persone che come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno detto e, continueranno sempre a dire NO! NO! e sempre NO!
I nuovi imprenditori, che hanno deciso che "TRINACRIA" deve ritornare ad essere effige di onesta e coraggio, e non di illegalità e vigliaccheria.


TRINACRIA”

Sotto l’abbraccio attento del vulcano
che con il suo pennacchio fumoso
come un carabiniere vigila,

dorate e spumeggianti onde
sono i campi di grano
che sulla piana di Catania
rigogliosi fluttuano.

Tormentati dal dolce alito
sembrar li fa
danzanti fanciulle bionde
alla paesana festa.

Perle rigogliose
sono i variopinti agrumeti,
delizioso il profumo
che il gelsomino
e la zagara spande.

Oltre, il mare avvolge
con il suo perpetuo abbraccio
questa linda terra,
che tanto gioir la fa per la sua quiete
e tanto pene nelle notti di tempeste desta.

Tu terra di conquiste,
patria dei miti Greci,
tu che a filosofi
e immani eroi desti i natali,
perché da gente sì codarda
martoriar ti fai?

Che infama le tue memorie,
che oltraggia le tue genti.

Oh vulcano,
colma con la tua impetuosa lava
le vene delle rette genti

Oh mare,
infondi la tua perenne forza
nelle menti dei giusti.

Oh Trinacria torna ad essere
la patria degli onesti.



Gaetano GULISANO

Aci Trezza




“ACI TREZZA”

Sotto i faraglioni
di Aci Trezza,
nella solitaria notte
muta e mesta
luccicano le lampare
a festa.

Occhi curiosi
che scrutano nel mare
sono le barche
che calme si lasciano
cullare.

Sul mare la luna
l’argenteo manto stende,
rendendolo come
un fermo incanto,
muta ascoltando
il loro dolce canto.

Quel tratto
che solcato fu d’Ulisse
e l’ira del Ciclope
Omero disse
che accecato
dal furbo Nessuno
in suo soccorso
chiamo il padre
Nettuno.

In questo luogo
di sì dolce incanto
che il gran poeta
narrò in suo canto
in questa notte
di così calma brezza
cantano i pescatori
di Aci Trezza.

Gaetano GULISANO

giovedì 15 maggio 2008

La tomba del Partigiano



In memoria di quelle persone che, sacrificando la loro vita, ci hanno reso LIBERI.


“LA TOMBA DEL PARTIGIANO”




La calura estiva era diventata insopportabile, la marea si era notevolmente abbassata, lasciando scoperte le alghe ai bordi degli scalini che, dalla piazza san Marco conducevano alla laguna e quasi come innervosita anch’essa, schiaffeggiava con continua flemma le gondole ormeggiate. L’olezzo stimolato dal caldo sole d’Agosto che, incessantemente percuoteva quel verde miscuglio di vegetazione marina e puzzolenti frutti di mare, diventava sempre più insostenibile, anche per i nasi più avvezzi a quel fetore, che contrastava con le immani bellezze della città.
Carovane di turisti, condotti come le mandrie di bovini di quei vecchi film Americani del “far west”, sudati e doloranti a causa del lungo camminare per le calli della città dell’antica Serenissima Veneta Repubblica, vociavano nelle lingue più bizzarre, da far sembrare la piazza san Marco e il suo maestoso campanile, come una moderna “Torre di Babele”.
Ripensavo a qualche giorno prima, fra i tavolini di un bar, dove lavoro come cameriere, avevo sentito parlare una coppia che diceva di essere appena tornata da un paese di montagna, “Canale d’Agordo” in provincia di Belluno, a poche ore di automobile da Venezia. - Carlo - diceva la donna seduta al tavolo, che aveva tutta l’aria di essere la moglie - perché siamo tornati così presto, appena una settimana, io non riesco a sopportare quest’afa. Ti prego, torniamo anche questo fine settimana, sono meno di tre ore di automobile. - E come una gatta che faceva le fusa, si avvinghiava alle braccia del marito, da sembrare un esotico pitone, con negli occhi lo stesso sguardo di quei cagnolini, che da sotto il tavolo con le zampette anteriori ti chiedono un tozzo di pane. - Vedrò cosa posso fare Roberta - rispondeva l’uomo, rivolgendosi a quell’animale mitologico che aveva avvinghiata al braccio, sapendo che quel “vedrò”, si sarebbe presto tramutato in un “agli ordini”. - Parlerò con il capo ufficio, per avere altri giorni di ferie per questo fine settimana.- Intervenni nella loro discussione, anche perché era da qualche minuto che la coppia non si curava della mia presenza - I vostri “Bellini” signori!- Mi guardarono entrambi con distacco, la donna quasi infastidita per aver interrotto quei momenti, ricominciava a riprendere sembianze umane, abbandonando le fattezze di quel miscuglio di animali e srotolandosi dal braccio del marito. Posai sul tavolo i loro bellini e lo scontrino, (questa era la politica del bar) e dopo aver incassato i quindici euro quello era il prezzo delle loro consumazioni mi allontanai.
Ridestatomi da quel pensiero, mosso quasi da una misteriosa forza, dato che avevo ottenuto due giorni di permesso, mi imbarcai sul primo vaporetto per il “Tronchetto” (località dove vi sono i parcheggi per le autovetture), per andare a prendere la mia auto in garage, per visitare questo Canale d’Agordo.
Ogni qualvolta ero libero, passavo le giornate a Jesolo lido, una località balneare poco distante da Venezia, molto popolata da giovani ed in riva al mare, trovavo sollievo dalla calura. Anzi a dire la verità, la montagna non mi aveva mai attirato, la trovavo monotona e triste, mentre il mare mi aveva sempre affascinato; non poteva essere altrimenti dato che sono Siciliano e saltuariamente avevo lavorato su una barca di pescatori ad Aci Trezza, una marineria in provincia di Catania, famosa per i suoi faraglioni, narrati da Omero nell’odissea e per i libri di Giovanni Verga, fra cui il più famoso è: “I Malavoglia”.
Ma quel giorno, ero come attratto da una strana forza e dalla curiosità.
Dopo aver viaggiato per circa tre ore, giunsi al paesino di Canale d’Agordo; la coppia non aveva per niente mentito, anche se era una splendida giornata di sole, si sentiva la frescura nell’aria che mi dava un enorme sollievo alla mia schiena ormai incollata alla maglietta dopo le tre ore di guida. Ancora prima del cartello di benvenuto, si notava uno striscione simile a quelli che si vedono negli stadi che informava che Albino Luciani, ossia Papa Giovanni Paolo I, era stato un onorevole cittadino di quel ridente paese e, che fra qualche giorno ci sarebbe stata una messa in suo onore, celebrata dal Vescovo di Belluno. Più mi inoltravo in quel paese e, più tutto sembrava come incantato, i “Tabià”, (che avrei scoperto in seguito che così erano chiamati delle caratteristiche costruzioni in legno, adibiti a fienili e a deposito per la legna, che sarebbe stata molto utile nei mesi invernali).
Tutt’attorno, ero circondato da verdi boschi di pini e l’odore dell’erba appena tagliata, inebriava l’aria di un profumo tanto denso da stimolare piacevolmente i sensi. Era ormai così lontano nella mia mente quell’olezzo delle alghe della laguna. Continuai a camminare a lento moto con la mia automobile, quasi senza neanche accorgermene, uscii dal paese, ma il paesaggio era tanto incantevole che continuai per cercare uno spiazzo, per potermi fermare e addentrarmi a piedi e diventare parte di quei boschi. Dopo pochi minuti, quello che vidi superò di molto le mie aspettative. Mi trovai su uno spiazzo e di fronte come se una potente mano di qualche mistica divinità avesse spostato gli alberi di quelle montagne, imponente correva l’acqua di una cascata che si divideva in due, una più in quota e l’altra più a valle, che rigogliosa diffondeva la sua musica per la valle scaturita dallo infrangersi dell’acqua sulle rocce della montagna. Parcheggiai immediatamente l’auto come se fossi in ritardo ad un importante appuntamento, e cercai un sentiero che mi portasse su quei boschi. Incominciai a camminare, imboccando il primo sentiero che trovai senza neppure essere sicuro in quale direzione stessi andando, né per quale motivo mi sentivo tanto attratto da quei boschi. Dopo circa un’ora di cammino, mi trovai immerso completamente nella vegetazione, al ché, capii che involontariamente avevo abbandonato il sentiero e mi ero perso; avanzavo in quella vegetazione, cercando di riprendere il senso dell’orientamento, ma l’unico senso che trovai fu quello di smarrimento, perché continuavo ad inciampare in sassi e radici che sporgevano dal terreno. Mi resi conto di essere stato imprudente ad avventurarmi senza una cartina né senza chiedere informazioni alla gente del luogo; comunque non provavo senso di panico, cosa che invece mi capitava, quando con i pescherecci prendevamo il mare, anche se le condizioni non erano ottimali. Mentre ero assorto in questo pensiero, sentii un fruscio fra i rami, mi girai di scatto perdendo l’equilibrio e caddi fra i massi rotolando a valle perdendo il senso dell’orientamento. Quando riuscii a fermarmi, non so dire con precisione per quanti metri ero rotolato giù a valle, venti, trenta metri, ma la cosa che mi apparve insolita era che il sole che qualche istante prima imperversava nella valle era sparito e il cielo si era improvvisamente ingrigito.
Mentre mi rialzavo per scrollarmi le foglie secche che mi erano rimaste attaccate addosso, e per vedere se avevo qualche escoriazione, una figura quasi irreale mi si avvicinava, era vestita in maniera bizzarra, aveva dei pantaloni grigi molto logori, una camicia chiara con le maniche arrotolate sino ai gomiti ed un fazzoletto rosso attorno al collo e mi si avvicinava silente, con un bastone nella mano destra. Come mi fu vicino circa una decina di metri, notai con stupore che quello che portava nella mano destra non era un bastone ma un fucile, ne ero sicuro, ma mi appariva al quanto strana quell’arma. Quando mi fu proprio davanti, notai con sicurezza che si trattava di un moschetto della seconda guerra mondiale, ne ero sicuro, perché qualche giorno prima, avevo visto alla tv un documentario sul ventennio fascista; il viso era molto giovane con una folta barba bionda e con delle lacrime che sgorgavano da grossi occhi chiari, rigandogli il viso per perdersi nella folta barba bionda.
Guardandolo bene, vidi che anche l’abbigliamento era simile a quello delle famose “Brigate Garibaldi”, brigate di partigiani che in quei funesti anni, si batterono dando il loro sangue contro il nazifascismo e per la libertà. Ma come poteva essere reale una simile visione? Cosa mi stava capitando? Prima che potessi in qualche modo raccogliere i miei pensieri, quest’uomo più simile a un’ombra fluttuante che ad un essere reale incomincio a parlarmi. - Non temere è da giorni che ti osservo, e oggi ti ho voluto incontrare - A quelle parole, mi sentii gelare il sangue nelle vene; io non ho mai creduto negli eventi soprannaturali, anzi ho sempre dubitato persino che Dio potesse essere un invenzione umana per discolparsi di immani nefandezze che in suo nome nell’arco dei secoli il genere umano ha compiuto, e continua compiere o solamente per dare una spiegazione illogica quando non ne trova una logica. Ma adesso ero pietrificato, come se avessi incrociato gli occhi della gorgone Medusa. - Non temere Salvatore - riprese quell’ombra con voce che tradiva il suo aspetto giovanile, lasciandomi ancora più atterrito dopo che questi aveva pronunciato il mio nome. Cercavo sempre più di convincermi che, nella caduta avevo violentemente battuto la testa e, se non mi trovavo all’altro mondo, dovevo certamente essere in preda al delirio. - Salvatore - continuò chiamandomi per nome, ti ho voluto incontrare, perché ho scrutato nel tuo animo e ho visto la tua semplicità, sono stanco di vedere come voi dimenticate così in fretta la storia e i sacrifici dei vostri fratelli.- Incredulo in un primo momento di ciò che mi stava accadendo, prima che potesse continuare replicai: - So che sei solo frutto della mia ammaccata mente, ma per quale motivo mi hai scelto? - decisi di assecondare quello che mi stava accadendo, sicuro che tutto sarebbe svanito quando mi fossi ripreso o tantomeno, se non appartenevo più a questo mondo, cosa poteva accadermi di peggio? - Io sono solo un cameriere, non mi sono mai interessato di politica, anzi penso, che il fetore emanato delle alghe al sole quando a Venezia vi è la bassa marea, debba essere profumatissima acqua di colonia al cospetto del marciume della politica! - Non temere - riprese a parlare - Volevo solo che una persona pura nell’animo, sapesse chi effettivamente sono stato: Mi chiamavano Guglielmo e vivevo felice in queste valli del mio lavoro, allevavo mucche e non mi mancava nulla fino a quando la guerra, quella sciagurata guerra e quell’infame dittatore… - Pronunciando la parola si interruppe come soprafatto da un’immane rabbia, e mentre ascoltavo quel racconto, sembrava che il partigiano lentamente prendesse forme umane e lasciasse le sembianze dell’entità ultraterrena. - Io,- continuo riprendendo una apparente rabbiosa calma - proprio come te ed è per questo motivo che ti ho voluto parlare, non avevo idee politiche, amavo le cose semplici, il lavoro, l’onestà e soprattutto la libertà.- Fintanto che continua quel mesto racconto, le lacrime scendevano più copiose dal viso, rompendo gli argini della folta barba e fermandosi al suolo. - La libertà – continuò dopo alcuni singhiozzi - Quella libertà che ogni uomo dovrebbe sentire nel cuore, non quella strumentale delle bandiere, dei simboli, alcuni di terrore altri d’onore, ma la libertà di essere libero. E non schiavo della libertà schiavo di chi ti libera dall’oppressore. Chi è più vile, l’oppressore che ti toglie la dignità? O il liberatore che liberandoti si sostituisce al primo per a sua volta opprimerti? - Mentre ascoltavo quello sfogo ero sgomento, e di rimando risposi in maniera accorata, dimenticando per un istante la totale assurdità di quello che stava accadendo. - Non vi è nessuna differenza! – dissi – Sia il primo che il secondo a mio parere, sono entrambi dei vili criminali, che nascondendosi sotto quelle bandiere e quei simboli così diversi fra loro, perseguono lo stesso fine. Sottomettere il popolo, barbaramente uccidendo tutti quelli che a questi si ribellano.- Ecco perché ti ho chiamato, perché volevo sapere se ancora a questo mondo, esistono persone che amano la pura e semplice libertà. Ora so, che fino a quando esisterà anche un solo Salvatore, il mio sacrificio non sarà stato vano. Addio Salvatore.- Io, quasi senza pensare a ciò che dicevo replicai:- Ti rivedrò ancora Guglielmo? - Il partigiano rispose ancora prima che io potessi finire la frase - Ogni volta che vorrai, nel profondo del tuo cuore.- E nello stesso modo che era apparso svanì.
Assorto com’ero in quei pensieri, non mi accorsi che era ritornato il sole e che avevo sia i capelli impastati che la maglia intrisa di sangue, e allora subito pensai che tutto quello che avevo creduto di aver visto ed aver sentito, altro non fosse frutto della rovinosa caduta che mi aveva sicuramente procurato un trauma cranico ed il successivo delirio. Ma toccandomi la testa, notai che non avevo alcuna ferita e nelle vicinanze non vi era anima viva né altre macchie di sangue. Dunque quel sangue non poteva essere che mio. Anche se tutto questo mi turbava, nell’animo ero contento che a tutta quella irrazionalità, non vi riuscivo a trovare una logica spiegazione. Ed ero sicuro che da quel giorno, anche se in maniera graduale, sarebbe cambiato anche il mio rapporto con Dio.
Come in uno stato di catalessi, raccolsi alcune pietre, e li misi a cerchio nel modo da formare un grande vaso, poi presi parte di una corteccia di un albero, e giratola dalla parte più liscia, la pulii con la manica della mia maglia, e con il coltellino del mio cavatappi che solitamente uso al bar per aprire la bottiglie di vino e che inavvertitamente, avevo lasciato nella tasca dei miei pantaloni, incisi la scritta: “Al Partigiano difensore della libertà”. Dopo presi delle margherite, e le riposi in quel rudimentale vaso di pietre che avevo creato. Mentre mi allontanavo, mi parve di vedere nel cielo un arcobaleno, cosa al quanto strana, perché l’erba era asciutta, dunque non aveva piovuto anche durante la mia per così dire temporanea assenza dal mondo reale. Ma ormai le stranezze facevano parte di quella giornata, e volli credere che la visione dell’arcobaleno altro non fosse che la voglia di vedere quei colori, simbolo di pace, mandato come saluto dal partigiano.
Mentre mi allontanavo, stranamente ritrovai il sentiero che avevo perso, e dall’alto intravedevo il parcheggio dove avevo lasciato la mia automobile.
Appena all’automobile, ripresi la strada per Venezia, convinto che vi sarei ritornato presto per riporre altri fiori e sicuro che avrei ritrovato senza alcuna difficoltà, il sentiero per la tomba del partigiano.

Gaetano GULISANO
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