giovedì 15 maggio 2008

La tomba del Partigiano



In memoria di quelle persone che, sacrificando la loro vita, ci hanno reso LIBERI.


“LA TOMBA DEL PARTIGIANO”




La calura estiva era diventata insopportabile, la marea si era notevolmente abbassata, lasciando scoperte le alghe ai bordi degli scalini che, dalla piazza san Marco conducevano alla laguna e quasi come innervosita anch’essa, schiaffeggiava con continua flemma le gondole ormeggiate. L’olezzo stimolato dal caldo sole d’Agosto che, incessantemente percuoteva quel verde miscuglio di vegetazione marina e puzzolenti frutti di mare, diventava sempre più insostenibile, anche per i nasi più avvezzi a quel fetore, che contrastava con le immani bellezze della città.
Carovane di turisti, condotti come le mandrie di bovini di quei vecchi film Americani del “far west”, sudati e doloranti a causa del lungo camminare per le calli della città dell’antica Serenissima Veneta Repubblica, vociavano nelle lingue più bizzarre, da far sembrare la piazza san Marco e il suo maestoso campanile, come una moderna “Torre di Babele”.
Ripensavo a qualche giorno prima, fra i tavolini di un bar, dove lavoro come cameriere, avevo sentito parlare una coppia che diceva di essere appena tornata da un paese di montagna, “Canale d’Agordo” in provincia di Belluno, a poche ore di automobile da Venezia. - Carlo - diceva la donna seduta al tavolo, che aveva tutta l’aria di essere la moglie - perché siamo tornati così presto, appena una settimana, io non riesco a sopportare quest’afa. Ti prego, torniamo anche questo fine settimana, sono meno di tre ore di automobile. - E come una gatta che faceva le fusa, si avvinghiava alle braccia del marito, da sembrare un esotico pitone, con negli occhi lo stesso sguardo di quei cagnolini, che da sotto il tavolo con le zampette anteriori ti chiedono un tozzo di pane. - Vedrò cosa posso fare Roberta - rispondeva l’uomo, rivolgendosi a quell’animale mitologico che aveva avvinghiata al braccio, sapendo che quel “vedrò”, si sarebbe presto tramutato in un “agli ordini”. - Parlerò con il capo ufficio, per avere altri giorni di ferie per questo fine settimana.- Intervenni nella loro discussione, anche perché era da qualche minuto che la coppia non si curava della mia presenza - I vostri “Bellini” signori!- Mi guardarono entrambi con distacco, la donna quasi infastidita per aver interrotto quei momenti, ricominciava a riprendere sembianze umane, abbandonando le fattezze di quel miscuglio di animali e srotolandosi dal braccio del marito. Posai sul tavolo i loro bellini e lo scontrino, (questa era la politica del bar) e dopo aver incassato i quindici euro quello era il prezzo delle loro consumazioni mi allontanai.
Ridestatomi da quel pensiero, mosso quasi da una misteriosa forza, dato che avevo ottenuto due giorni di permesso, mi imbarcai sul primo vaporetto per il “Tronchetto” (località dove vi sono i parcheggi per le autovetture), per andare a prendere la mia auto in garage, per visitare questo Canale d’Agordo.
Ogni qualvolta ero libero, passavo le giornate a Jesolo lido, una località balneare poco distante da Venezia, molto popolata da giovani ed in riva al mare, trovavo sollievo dalla calura. Anzi a dire la verità, la montagna non mi aveva mai attirato, la trovavo monotona e triste, mentre il mare mi aveva sempre affascinato; non poteva essere altrimenti dato che sono Siciliano e saltuariamente avevo lavorato su una barca di pescatori ad Aci Trezza, una marineria in provincia di Catania, famosa per i suoi faraglioni, narrati da Omero nell’odissea e per i libri di Giovanni Verga, fra cui il più famoso è: “I Malavoglia”.
Ma quel giorno, ero come attratto da una strana forza e dalla curiosità.
Dopo aver viaggiato per circa tre ore, giunsi al paesino di Canale d’Agordo; la coppia non aveva per niente mentito, anche se era una splendida giornata di sole, si sentiva la frescura nell’aria che mi dava un enorme sollievo alla mia schiena ormai incollata alla maglietta dopo le tre ore di guida. Ancora prima del cartello di benvenuto, si notava uno striscione simile a quelli che si vedono negli stadi che informava che Albino Luciani, ossia Papa Giovanni Paolo I, era stato un onorevole cittadino di quel ridente paese e, che fra qualche giorno ci sarebbe stata una messa in suo onore, celebrata dal Vescovo di Belluno. Più mi inoltravo in quel paese e, più tutto sembrava come incantato, i “Tabià”, (che avrei scoperto in seguito che così erano chiamati delle caratteristiche costruzioni in legno, adibiti a fienili e a deposito per la legna, che sarebbe stata molto utile nei mesi invernali).
Tutt’attorno, ero circondato da verdi boschi di pini e l’odore dell’erba appena tagliata, inebriava l’aria di un profumo tanto denso da stimolare piacevolmente i sensi. Era ormai così lontano nella mia mente quell’olezzo delle alghe della laguna. Continuai a camminare a lento moto con la mia automobile, quasi senza neanche accorgermene, uscii dal paese, ma il paesaggio era tanto incantevole che continuai per cercare uno spiazzo, per potermi fermare e addentrarmi a piedi e diventare parte di quei boschi. Dopo pochi minuti, quello che vidi superò di molto le mie aspettative. Mi trovai su uno spiazzo e di fronte come se una potente mano di qualche mistica divinità avesse spostato gli alberi di quelle montagne, imponente correva l’acqua di una cascata che si divideva in due, una più in quota e l’altra più a valle, che rigogliosa diffondeva la sua musica per la valle scaturita dallo infrangersi dell’acqua sulle rocce della montagna. Parcheggiai immediatamente l’auto come se fossi in ritardo ad un importante appuntamento, e cercai un sentiero che mi portasse su quei boschi. Incominciai a camminare, imboccando il primo sentiero che trovai senza neppure essere sicuro in quale direzione stessi andando, né per quale motivo mi sentivo tanto attratto da quei boschi. Dopo circa un’ora di cammino, mi trovai immerso completamente nella vegetazione, al ché, capii che involontariamente avevo abbandonato il sentiero e mi ero perso; avanzavo in quella vegetazione, cercando di riprendere il senso dell’orientamento, ma l’unico senso che trovai fu quello di smarrimento, perché continuavo ad inciampare in sassi e radici che sporgevano dal terreno. Mi resi conto di essere stato imprudente ad avventurarmi senza una cartina né senza chiedere informazioni alla gente del luogo; comunque non provavo senso di panico, cosa che invece mi capitava, quando con i pescherecci prendevamo il mare, anche se le condizioni non erano ottimali. Mentre ero assorto in questo pensiero, sentii un fruscio fra i rami, mi girai di scatto perdendo l’equilibrio e caddi fra i massi rotolando a valle perdendo il senso dell’orientamento. Quando riuscii a fermarmi, non so dire con precisione per quanti metri ero rotolato giù a valle, venti, trenta metri, ma la cosa che mi apparve insolita era che il sole che qualche istante prima imperversava nella valle era sparito e il cielo si era improvvisamente ingrigito.
Mentre mi rialzavo per scrollarmi le foglie secche che mi erano rimaste attaccate addosso, e per vedere se avevo qualche escoriazione, una figura quasi irreale mi si avvicinava, era vestita in maniera bizzarra, aveva dei pantaloni grigi molto logori, una camicia chiara con le maniche arrotolate sino ai gomiti ed un fazzoletto rosso attorno al collo e mi si avvicinava silente, con un bastone nella mano destra. Come mi fu vicino circa una decina di metri, notai con stupore che quello che portava nella mano destra non era un bastone ma un fucile, ne ero sicuro, ma mi appariva al quanto strana quell’arma. Quando mi fu proprio davanti, notai con sicurezza che si trattava di un moschetto della seconda guerra mondiale, ne ero sicuro, perché qualche giorno prima, avevo visto alla tv un documentario sul ventennio fascista; il viso era molto giovane con una folta barba bionda e con delle lacrime che sgorgavano da grossi occhi chiari, rigandogli il viso per perdersi nella folta barba bionda.
Guardandolo bene, vidi che anche l’abbigliamento era simile a quello delle famose “Brigate Garibaldi”, brigate di partigiani che in quei funesti anni, si batterono dando il loro sangue contro il nazifascismo e per la libertà. Ma come poteva essere reale una simile visione? Cosa mi stava capitando? Prima che potessi in qualche modo raccogliere i miei pensieri, quest’uomo più simile a un’ombra fluttuante che ad un essere reale incomincio a parlarmi. - Non temere è da giorni che ti osservo, e oggi ti ho voluto incontrare - A quelle parole, mi sentii gelare il sangue nelle vene; io non ho mai creduto negli eventi soprannaturali, anzi ho sempre dubitato persino che Dio potesse essere un invenzione umana per discolparsi di immani nefandezze che in suo nome nell’arco dei secoli il genere umano ha compiuto, e continua compiere o solamente per dare una spiegazione illogica quando non ne trova una logica. Ma adesso ero pietrificato, come se avessi incrociato gli occhi della gorgone Medusa. - Non temere Salvatore - riprese quell’ombra con voce che tradiva il suo aspetto giovanile, lasciandomi ancora più atterrito dopo che questi aveva pronunciato il mio nome. Cercavo sempre più di convincermi che, nella caduta avevo violentemente battuto la testa e, se non mi trovavo all’altro mondo, dovevo certamente essere in preda al delirio. - Salvatore - continuò chiamandomi per nome, ti ho voluto incontrare, perché ho scrutato nel tuo animo e ho visto la tua semplicità, sono stanco di vedere come voi dimenticate così in fretta la storia e i sacrifici dei vostri fratelli.- Incredulo in un primo momento di ciò che mi stava accadendo, prima che potesse continuare replicai: - So che sei solo frutto della mia ammaccata mente, ma per quale motivo mi hai scelto? - decisi di assecondare quello che mi stava accadendo, sicuro che tutto sarebbe svanito quando mi fossi ripreso o tantomeno, se non appartenevo più a questo mondo, cosa poteva accadermi di peggio? - Io sono solo un cameriere, non mi sono mai interessato di politica, anzi penso, che il fetore emanato delle alghe al sole quando a Venezia vi è la bassa marea, debba essere profumatissima acqua di colonia al cospetto del marciume della politica! - Non temere - riprese a parlare - Volevo solo che una persona pura nell’animo, sapesse chi effettivamente sono stato: Mi chiamavano Guglielmo e vivevo felice in queste valli del mio lavoro, allevavo mucche e non mi mancava nulla fino a quando la guerra, quella sciagurata guerra e quell’infame dittatore… - Pronunciando la parola si interruppe come soprafatto da un’immane rabbia, e mentre ascoltavo quel racconto, sembrava che il partigiano lentamente prendesse forme umane e lasciasse le sembianze dell’entità ultraterrena. - Io,- continuo riprendendo una apparente rabbiosa calma - proprio come te ed è per questo motivo che ti ho voluto parlare, non avevo idee politiche, amavo le cose semplici, il lavoro, l’onestà e soprattutto la libertà.- Fintanto che continua quel mesto racconto, le lacrime scendevano più copiose dal viso, rompendo gli argini della folta barba e fermandosi al suolo. - La libertà – continuò dopo alcuni singhiozzi - Quella libertà che ogni uomo dovrebbe sentire nel cuore, non quella strumentale delle bandiere, dei simboli, alcuni di terrore altri d’onore, ma la libertà di essere libero. E non schiavo della libertà schiavo di chi ti libera dall’oppressore. Chi è più vile, l’oppressore che ti toglie la dignità? O il liberatore che liberandoti si sostituisce al primo per a sua volta opprimerti? - Mentre ascoltavo quello sfogo ero sgomento, e di rimando risposi in maniera accorata, dimenticando per un istante la totale assurdità di quello che stava accadendo. - Non vi è nessuna differenza! – dissi – Sia il primo che il secondo a mio parere, sono entrambi dei vili criminali, che nascondendosi sotto quelle bandiere e quei simboli così diversi fra loro, perseguono lo stesso fine. Sottomettere il popolo, barbaramente uccidendo tutti quelli che a questi si ribellano.- Ecco perché ti ho chiamato, perché volevo sapere se ancora a questo mondo, esistono persone che amano la pura e semplice libertà. Ora so, che fino a quando esisterà anche un solo Salvatore, il mio sacrificio non sarà stato vano. Addio Salvatore.- Io, quasi senza pensare a ciò che dicevo replicai:- Ti rivedrò ancora Guglielmo? - Il partigiano rispose ancora prima che io potessi finire la frase - Ogni volta che vorrai, nel profondo del tuo cuore.- E nello stesso modo che era apparso svanì.
Assorto com’ero in quei pensieri, non mi accorsi che era ritornato il sole e che avevo sia i capelli impastati che la maglia intrisa di sangue, e allora subito pensai che tutto quello che avevo creduto di aver visto ed aver sentito, altro non fosse frutto della rovinosa caduta che mi aveva sicuramente procurato un trauma cranico ed il successivo delirio. Ma toccandomi la testa, notai che non avevo alcuna ferita e nelle vicinanze non vi era anima viva né altre macchie di sangue. Dunque quel sangue non poteva essere che mio. Anche se tutto questo mi turbava, nell’animo ero contento che a tutta quella irrazionalità, non vi riuscivo a trovare una logica spiegazione. Ed ero sicuro che da quel giorno, anche se in maniera graduale, sarebbe cambiato anche il mio rapporto con Dio.
Come in uno stato di catalessi, raccolsi alcune pietre, e li misi a cerchio nel modo da formare un grande vaso, poi presi parte di una corteccia di un albero, e giratola dalla parte più liscia, la pulii con la manica della mia maglia, e con il coltellino del mio cavatappi che solitamente uso al bar per aprire la bottiglie di vino e che inavvertitamente, avevo lasciato nella tasca dei miei pantaloni, incisi la scritta: “Al Partigiano difensore della libertà”. Dopo presi delle margherite, e le riposi in quel rudimentale vaso di pietre che avevo creato. Mentre mi allontanavo, mi parve di vedere nel cielo un arcobaleno, cosa al quanto strana, perché l’erba era asciutta, dunque non aveva piovuto anche durante la mia per così dire temporanea assenza dal mondo reale. Ma ormai le stranezze facevano parte di quella giornata, e volli credere che la visione dell’arcobaleno altro non fosse che la voglia di vedere quei colori, simbolo di pace, mandato come saluto dal partigiano.
Mentre mi allontanavo, stranamente ritrovai il sentiero che avevo perso, e dall’alto intravedevo il parcheggio dove avevo lasciato la mia automobile.
Appena all’automobile, ripresi la strada per Venezia, convinto che vi sarei ritornato presto per riporre altri fiori e sicuro che avrei ritrovato senza alcuna difficoltà, il sentiero per la tomba del partigiano.

Gaetano GULISANO

Io credo?


...Ho sentito dire (ma non ricordo né dove né da chi dove), che nostro Signore, non carica mai più peso di quello che un uomo può sopportare, ma a volte, sento il bisogno di fermarmi, posare a terra il mio fardello e riposare...

“Io credo?”

Io credo in Dio,
eppure ho giaciuto sull’asfalto
dolorante in una pozza
di sangue.

Io credo in Dio,
eppure sono stato mesi
sdraiato in un letto
di ospedale.

Io credo in Dio,
eppure non riesco
ancora a camminare.

Io vorrei non credere più in Dio,
per non incolparlo
di ciò che mi è accaduto,
vorrei destituirlo
dalla sua onnipotenza,
vorrei non affidare a lui
lo svolgersi degli eventi.

Io vorrei continuare
a credere in Dio,
ma non per chiedergli
il perché di queste
sofferenze,
non per incolparlo di ciò
che mi è accaduto,
non per chiedergli
il motivo della mia
mancata guarigione.

Io vorrei continuare
a credere in Dio,
per chiedergli
di restituirmi la fede.

(Dedicata a me che fino ad oggi mi sono sforzato di credere che il mio incidente è stato solo colpa del fato e non di un disegno divino
“La sofferenza fa parte del disegno divino , e di coloro puri di spirito. Antonia S.”)


Gaetano GULISANO
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