martedì 13 maggio 2008

Marmolada

Dal 1992, per lavoro mi trovo in Veneto. E dal 1997, per merito di mia moglie, ho conosciuto e mi sono innamorato della montagna.
La reggina delle dolomiti, la Marmolada, ogni anno che passa è sempre più malata per colpa degli umani che, incuranti della sua eterna bellezza (che rischia di non essere più eterna), la maltrattano contribuendo al riscaldamento globale.
Nei secoli, ha resistito alle varie incursioni dell'uomo come le gallerie scavate nella 1° guerra mondiale, atroce esempio di come l'uomo è capace di vili azione e allo stesso tempo di atti di eroismo e misericordia estrema.
Tutto questo per le generazioni a venire potrebbe essere solo motivo di studio su dei banchi di scuola.
Rifletti Uomo... Rifletti!!!



MARMOLADA

Eterna ti nomano femmineo monte,
supremo ghiacciaio sì dominante,
dalla tua vetta sì immacolata,
in te mi perdo
oh mia Marmolada.

Rapito da roccia così marmorina,
estasiato t’ammiro possente regina,
dall’alto tu domini questi verdi prati,
signora tu sei delle dolomiti.

Le valli sì eteree e incontaminate ,
da genti sì forti sono popolate.

Perché t’han violata quegli uomini stolti,
che pe’ lor furore adesso son morti?
Cessando il candore del tuo bianco manto,
bagnandoti con il loro immane pianto.

E gli uomini in pace che t’han profanata
e del bianco tuo manto or t’hanno spogliata,
come un cancro lento ghiacciaio imponente
le genti ti vedono agonizzante.

Allora insorgi mia somma regina,
ritorna e ghiacciarti si bella e suprema,
richiama a gran voce e senza timore
il generale che porta il candore.

Nient’altro ti chiedo mia bella reggina,
ritorna sul trono più forte di prima,
perchè ti si possa ancora mirare
in tutto il tuo candido splendore.

In te io confido oh sovrana mite,
che le mie preci siano esaudite,
ma ancora t’ammiro signora fatata
possente reggina oh mia Marmolada.

Gaetano GULISANO

Il viaggio nel tempo


“IL VIAGGIO NEL TEMPO”


Come ogni giorno, alle 08.00 ero già nello spogliatoio della caserma carabinieri di Venezia, dove prestavo servizio imbarcato su di una motovedetta di quel comando con il titolo di nocchiere motorista, ossia comandante di motovedette. Ormai erano più di quindici anni che per servizio navigavo lungo i canali di quell’incantevole città, avevo visto posti che, i turisti che giornalmente con ogni condizione atmosferica visitano la città, non avrebbero neppure lontanamente potuto immaginare; avevo visto quella Venezia che puoi vedere solo navigando in quei stretti canali, osservando quei palazzi che da secoli combattono contro l’incessante azione degli elementi e contro uno più spietato ed invincibile avversario. L’incuria degli umani, quegli stolti umani, che non vogliono guardare al passato, oltraggiando tutto quello che questo rappresenta, e avevo provato ad immaginare il rigoglioso splendore dell’epoca della “Serenissima”.
Ero quasi pronto, quando da fuori lo spogliatoio sentii urlare: - Cavallo pazzo! Cavallo pazzo! - quello era il mio sopranome, che mi era stato dato dal vecchio comandante, per il fatto che prima di essere trasferito a Venezia, avevo prestavo servizio in Sardegna e lì avevo imparato a montare a cavallo; avevo proseguito per qualche tempo anche al lido di Venezia, ove vi era un maneggio e quel burlone del vecchio comandante un Pugliese al quanto bizzarro, mi aveva attribuito benevolmente quel soprannome, come aveva fatto con la maggior parte dei membri del Nucleo Natanti, era quello il nucleo dal quale dipendevano le motovedette. - Cavallo pazzo! – continuava la voce, ma questa volta riuscii a distinguere di chi fosse quella voce, era del mio compagno di turno, Massimiliano, questo era il suo nome, un ragazzo non ancora trentenne, un Napoletano dal fisico poderoso ed atletico, fissato per la forma fisica ed il “Body Building” perennemente abbronzato da sembrare un bagnino di “Baywatch” e molto villoso da questo il suo soprannome “O scimmione”. - “Scimmione” aspetta che arrivo!- gli urlai dallo spogliatoio, appena questi fu dentro lo spogliatoio mi disse che il comandante voleva parlarmi.
Entrato nell’ufficio del comandante, questi con aria al quanto seccata, mi comunicò che fra una settimana, mi sarei dovuto presentare alla scuola allievi sottufficiali della Marina Militare all’isola di La Maddalena in Sardegna, per un corso di aggiornamento della durata di quaranta giorni, inerente al comando delle motovedette.
Il comandante continua a sbuffare, asserendo che al nucleo erano rimasti in pochi e non sapeva come rimpiazzarmi.
Sapevo che mentiva spudoratamente, perché lo conoscevo da più di quindici anni, un ex appuntato diventato maresciallo, che giornalmente doveva fare i conti con il fatto che tutti quelli che lo conoscevamo da lunga data, lo consideravano l’appuntato amicone di sempre, anche se tutti, ci rivolgevamo a lui mostrando il rispetto che meritava il suo grado.
Mentre continuava a parlare, non potei fare a meno di isolarmi dentro ai miei pensieri, la sua voce cominciò ad affievolirsi sempre più, più parlava più la sua voce diveniva fioca; sarei tornato in Sardegna, e un brivido mi percorse la schiena fino al cervello, avrei rivisto quei luoghi che quasi vent’anni prima, furono la mia destinazione da carabiniere neopromosso. Sarebbe stato come avventurarmi in un viaggio nel tempo, sarei tornato indietro di vent’anni. Anche se la mia prima destinazione e dove avevo passato i mie primi cinque anni di carriera prima di approdare nell’incantevole Venezia, non era stata La Maddalena, ma bensì Santa Teresa di Gallura, uno stupendo paesino sul mare, che distava pochi chilometri da La Maddalena, la quale conoscevo, solo perché quindici anni prima vi avevo fatto il corso per conseguire l’abilitazione al comando di motovedette. Anche per La Maddalena sarebbe stato un breve viaggio nel tempo, ma il vero viaggio nel tempo sarebbe stato quello a Santa Teresa di Gallura, ove avevo vissuto per cinque anni. Mentre fantasticavo questi pensieri, con la mente correvo al giorno che al primo riposo settimanale, avrei potuto effettuare il vero viaggio nel tempo. – Cavallo pazzo! Cavallo pazzo!- il maresciallo urlava e quasi ridestandomi dal torpore dissi - cosa?-
-stai ancora dormendo? Sono quasi le 08,30- disse il maresciallo con un’accentuata vena di sarcasmo - nulla- risposi - stavo solo pensando come organizzare il viaggio-
Abbandonai l’ufficio e ripresi il regolare servizio, ma per tutta la settimana, quel pensiero non mi abbandonò, organizzai con meticolosa precisione il viaggio dal biglietto aereo all’albergo dove sarei alloggiato, non trascurando il fatto che dopo pochi giorni mi avrebbe raggiunto mia moglie, una ragazza Veneziana con la quale ero sposato da due anni e che non avrei lasciato sola per tutti quei quaranta giorni. Perché, se mi eccitava il pensiero del mio passato, non avrei trascurato per nulla al mondo quello che era il mio futuro, la mia dolce moglie.
Quel giorno, il sole splendeva in un cielo privo di nuvole; all’aeroporto di Venezia Tessera ero pronto con il mio bagaglio a mano e dopo tutte le perquisizioni di rito al metal-detector, che ormai dopo l’11 settembre 2001, erano più accurate di una risonanza magnetica, salutai mia moglie, sapendo, che anche se la mia eccitazione per quel viaggio era palpabile, mi sarebbe mancata prima di quanto io mi aspettassi.
Dopo aver sorvolato la laguna veneta e il tratto di mare che separava la Sardegna dal resto d’Italia, il “continente”, come veniva chiamata da ogni persona originaria di quell’isola, appena il comandante dell’aereo, annunciò che stavamo iniziando la discesa verso terra, informandoci come di rito delle buone condizioni atmosferiche; dal mio finestrino diradatesi le nubi, si incominciava ad intravedere la costa smeralda, il golfo degli aranci e la città Olbia. A quella visione, ebbi un fremito perché da quella altitudine era tutto come vent’anni prima, anche se mi pareva insolito che in tutti quegli anni la devastatrice mano dell’uomo non aveva costruito obbrobriose ville su quelle coste. Non appena atterrato, ed aver recuperato i bagagli, quell’incanto immediatamente si ruppe, nulla era come l’avevo lasciato, ma in un primo momento non me ne curai, perche avevo fretta di raggiungere il pullman, che mi avrebbe portato a Palau, quello era il nome del paese, da dove partivano i ferryboat per La Maddalena, e se avessi fatto presto, facendo qualche telefonata, sarei potuto andare a Santa Teresa di Gallura quello stesso giorno. Aspettative però disattese, perché il pullman partì con notevole ritardo, ma nonostante ciò, durante il tragitto da Olbia a Palau, mi gustai il panorama di quella natura selvaggia, con le sue granitiche rocce e i suoi alberi misteriosamente cresciuti su di esse, con il tronco piegato per il forte vento che in modo innaturale aveva continuato a fiorire per l’arco dei secoli; ricordandomi tutte le volte che in cinque anni, avevo percorso quella strada, ogni volta che andavo o tornavo dalla licenza.
Appena arrivato a destinazione, dopo un viaggio in ferryboat non del tutto confortevole, abbandonai del tutto l’idea di poter recarmi a Santa Teresa di Gallura, in quanto per il disbrigo delle pratiche alla scuola allievi, ci volle più di quanto mi sarei aspettato.
Poco male pensai, che diamine, avevo d’avanti quaranta giorni, sarei andato con il primo riposo.
L’indomani, tutto agghindato nella mia divisa ordinaria, che non indossavo da tempo, perché da quando avevo preso a far parte del servizio navale dell’arma, avevo usato quella di navigazione. Mi avviai alla scuola sottufficiali, dentro l’aula, mentre mi presentavo ai colleghi compagni di corso, guardando attraverso le finestre, notai gli allievi che marciavano e facevano le loro esercitazioni, ed ebbi subito una strana sensazione, che quei ragazzi fossero troppo giovani per essere dei marinai che imbracciavano un’arma, ma poi vedendo nello stesso vetro la mia immagine riflessa, con cupo stupore mi persuasi che non erano loro ad essere troppo giovani e fuori luogo, ma ero io ad essere troppo vecchio per i banchi di scuola. Cercai di abbandonare quanto prima quel pensiero, concentrandomi sul giorno di riposo.
Fui destato dall’entrata di un attempato ufficiale della Marina Militare, il quale ci ragguagliò dell’importanza di quel corso esortandoci al massimo impegno, anche se l’ufficiale, aveva pronunciato quelle parole con poca convinzione, sapendo in cuor suo che le sue esortazioni non sarebbero state da noi recepite.
Finite le lezioni, quella sera, decisi di rimanere nell’isola, perché volevo ritornare in un bar che facevano dei panini farciti con pancetta che erano una vera delizia, ed inoltre ero ansioso d’incontrare il vecchio proprietario, con il quale quindici anni prima avevo passato delle spensierate e divertenti serate.
Quando giunsi al bar, per poco non passai oltre non riconoscendo né il bar né il titolare, quel locale che era stato punto di ritrovo per i vecchi frequentatori del primo corso di specializzazione, era diventato una bettola buia e maleodorante, il titolare era un signore in evidente sovrappeso, con una pancia sporgente per i troppi bicchieri di birra e con una calvizie avanzata. Appena mi avvicinai con una certa riluttanza, questi dopo un primo ed attento sguardo aprì la bocca in un sorriso che metteva in mostra i dei denti ingialliti dal fumo e un incisivo di colore argento, pronunciando il mio nome con tono interrogativo. - Sei tu Gaetano?- ormai ero in ballo e dovevo ballare - Peppe? - ripetei io, ci abbracciammo, questi era impregnato dell’olezzo del fumo, dell’alcol e della tedia; ci raccontammo i vecchi tempi davanti ad un bicchiere di birra, sorridendo e annuendo entrambi più volte, ma poi la sua espressione si incupì, quando iniziò a raccontarmi le sue sventure, di come era quasi sul lastrico a causa del divorzio dalla sua ex moglie e che fra qualche mese avrebbe dovuto chiudere il bar, per i debiti contratti con banche ed a usurai, (non riuscendo a fare una distinzione fra gli uni e gli altri).
Io, evitai di raccontare come a me fosse andata meglio, dopo la birra, con una banale scusa mi alzai e con piacere lasciai quel locale che ormai da tempo non era più quello che avevo conosciuto. La prima tappa del mio viaggio nel tempo, era stata veramente disastrosa, ma feci di tutto per non pensarci.
Finalmente arrivò il sabato, e dato che avevamo fatto due rientri settimanali, avevamo finito le lezioni il venerdì pomeriggio ed avevamo sia il sabato che la domenica liberi, sino alle 08,00 del lunedì successivo.
Erano le 07,30, il sole picchiava forte come era solitamente fare nel mese di marzo in quella regione, feci in fretta il biglietto del ferryboat e imbarcato, iniziò la navigazione per la volta di Palau, che mi parve molto più lunga di quando effettivamente non fosse. Durante quel tragitto, anche se ero molto emozionato ed era una bella giornata di sole, che dava a quelle acque dei riverberi indescrivibili per la loro bellezza, non riuscivo a scacciare dalla mente l’incontro con Peppe o con quello che ne era rimasto, non potendo fare a meno di pensare quale sensazione avessi provato; se, anche a Santa Teresa di Gallura avessi fatto incontri di quel tipo, annebbiando quello che doveva essere il mio viaggio nel tempo. Mentre ero immerso mio malgrado in quei tetri pensieri, venni destato dai salti di alcuni delfini, che gioiosamente guizzavano ai lati del ferryboat e in quel modo riuscii a scacciare quei pensieri.
Sbarcato a Palau, dovetti aspettare circa un’ora prima che il pullman per Santa Teresa partisse, durante l’attesa mi recai ad un vicino bar ed ordinai due bottiglie di birra “Ichnusa” da portare via, una birra in voga nell’isola, uscii con le bottiglie in mano e fissando il mare iniziai a sorseggiare quella gelida bevanda, evitando di pensare quale poteva essere stata la disposizione dei locali vent’anni prima. Finita la birra nel frattempo era arrivato il mio “pullman del tempo”, salii a bordo e mi sistemai in un posto vicino al finestrino. Appena in movimento, aprii l’altra bottiglia ed incominciai a sorseggiarla, provando sollievo per la frescura che questa mi dava. L’essermi sistemato, vicino al finestrino non si rivelò una buona idea, perché, ogni volta che guardavo fuori e riconoscevo un luogo, questo era totalmente diverso, da come l’ho ricordavo. Quel viaggio, stava prendendo una piega che non avevo previsto e che non mi piaceva per niente, inoltre, l’immagine e le parole di Peppe continuavano a martellarmi in testa in maniera incessante, neanche la birra che avevo quasi finito, mi dava più sollievo. Erano trascorsi quasi trenta minuti dalla partenza e in lontananza si delineava, quello che vent’anni prima era stato l’incrocio che conduceva al porto dove vi era un chiosco che preparava dei frutti di mare in maniera sublime. Poco prima dell’incrocio, il pullman rallentò e svoltò per il porto; una donna che mi era seduta accanto, notando la mia sorpresa, mi disse che era da qualche mese che il pullman faceva una prima sosta al porto, poi andava in paese e dopo aver fatto una sosta di circa quindici minuti, ripassava per il porto per poi proseguire per Palau. A quelle parole, ebbi una rivelazione, capii che se fossi arrivato sino in paese, avrei per sempre rotto la mia “macchina del tempo”, in un lampo guardai la strada e mi resi conto che eravamo quasi arrivati alla fermata del porto, l’autista guardava nel retrovisore interno, per adocchiare se qualche passeggero si era preparato a scendere, io con un gesto fulmineo gli feci cenno, questo rallentò e aperta la bussola in tutta fretta scesi. Avevo bisogno di riflettere sul da farsi. Cosa meglio di un bel piatto di ricci crudi, piatto forte di Mario il titolare del piccolo chiosco.
Mi girai attorno e non vidi nessun chiosco, anche se in cuor mio l’avevo immaginato, andai verso le banchine del porto ed il bel panorama che si vedeva un tempo, guardando in direzione della Corsica, era stato deturpato da ville sontuose immerse, (per così dire, se di immersione si può parlare) in quel poco di macchia mediterranea che era rimasta. Tornai indietro con l’animo sempre più cupo e notai qualcosa che mi era sfuggita prima, forse volontariamente. Al posto del chiosco di Mario, vi era un bar dal quale proveniva una forte musica “tecno” e un tanfo di olio fritto stantio, con un’insegna raffigurante panini farciti con Wurstel e abbondanti salse variopinte che fuoriuscivano e vari hamburger, corredati da una foglia di lattuga ed irrorate con le stesse salse del primo, il tutto in un letto di patatine fritte. Mi resi conto immediatamente, che quel sogno si stava trasformando in un terribile incubo. Prima Peppe, uno dei ragazzi più in gamba della vecchia compagnia, ridotto in quella maniera, poi, il fatto che la gente che veniva a Santa Teresa o ancor peggio la gente del luogo, preferivano hot “dog ed hamburger” ai deliziosi frutti di mare del mitico Mario. Ancora immerso in quei pensieri, le mie nari vennero offese da un forte olezzo inconfondibile, quello classico delle persone che da tanto tempo non usavano né acqua né sapone, mi girai ed ebbi la conferma di quanto avevo sospettato, davanti a me, stava quello che rimaneva di un uomo sulla quarantina, con sguardo spento e con voce quasi meccanica, mi domandò se avessi qualche spicciolo. Mentre mi frugavo nelle tasche, notai che questi mi guardò fisso negli occhi e immediatamente, lo sguardo spento repentinamente si accese in uno sguardo misto di terrore e vergogna. Facendomi cenno con la mano che non voleva nulla, in fretta si allontanò. Rimasi inebetito per qualche istante con una moneta da un euro in mano, ma subito dopo iniziava a delinearsi nella mia mente, non più quel viso lercio ma un viso da i lineamenti gentili, e un ragazzo con il quale vent’anni prima avevo trascorso delle belle serate in compagnia di altri amici. Feci per seguirlo, ma qualcosa nel mio animo mi fermò. Ormai, avevo capito che la “macchina del tempo” si era rotta e se fossi andato avanti, avrei spezzato per sempre quei bei ricordi, quelle grigliate di notte sulla spiaggia con chitarre e falò.
Fermo in mezzo alla strada, vidi la mia immagine riflessa nella vetrina di quel troppo moderno bar e questa volta più che quando mi vidi riflesso in aula della scuola allievi, notai che anch’io, non avevo più nulla a che vedere con quel ventitreenne che vent’anni prima aveva mangiato ricci crudi al porto ed aveva prestato servizio in quel paese. Il mio agognato ritorno al passato, mi avrebbe soltanto rubato i miei ricordi. In lontananza, vidi il pullman che mi aveva portato in quel luogo che stava ripartendo per la volta di Palau; senza esitare, feci cenno con la mano e salii. Questa volta, presi posto in maniera tale da non vedere il paesaggio e per tutta la durata del viaggio non mi voltai, non volevo che nella mia mente altri ricordi potessero andare perduti.
Ritornai in fretta a La Maddalena, appena sceso dal ferryboat, andai su un bar, presi una birra ed un tramezzino e mi sedetti su una bitta di ormeggio al porto, in maniera da poter vedere in lontananza Santa Teresa di Gallura.
Da quella postazione ritornava ad essere quello che negli anni si era impresso nella mia mente, addentai il tramezzino, mandai giù un sorso di birra che ritornò a darmi piacevoli sensazioni e pensai a mia moglie che fra qualche settimana sarebbe venuta a trovarmi. Avendo la certezza che i miei ricordi erano salvi e che il mio futuro mi avrebbe riservato piacevoli emozioni. Presi il cellulare, composi il suo numero e quando rispose gli dissi “Ti amo”.


Gaetano GULISANO
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